Yemen

Le mille.... e sei notti e mezzo

Torna al menù iniziale

Domenica 9 aprile 2000

Seconda sveglia alle 7, colazione, telefoniamo a casa e lasciamo un breve messaggio in segreteria per informare del nostro arrivo a destinazione, poi saliamo tutti sui pulmini. Su quello che abbiamo preso salgono altre persone per un totale di 13 più l’autista e una guida che si alternerà con una seconda guida e l’accompagnatrice. Ci dirigiamo al museo che è situato nel palazzo dell’Iman costruito ai primi del 1900. Vi sono conservati reperti preistorici, testimonianze del regno di Saba, costumi ed armi del periodo maomettano. L’esposizione è quella di un vecchio museo e non particolarmente ricca ma ci dà un’idea delle varie culture. Terminata la visita usciamo dalla città. La periferia è misera. Le costruzioni si susseguono senza un ordine preciso; file di poveri negozi si aprono sulla strada e ai lati ci sono detriti e rifiuti. Il maggior numero delle costruzioni è terminato solo in parte ed al posto dei tetti spuntano i ferri arrugginiti dell’armatura dei pilastri di cemento. Ci stiamo dirigendo a Wadi Dhahr che dista quindici chilometri dalla capitale.

Ci fermiamo poco prima di giungere alla meta per ammirare dall’alto la valle in cui è situata la località, che ci appare in mezzo a rocce a strapiombo scavate da piogge preistoriche. Al centro della valle si eleva una roccia sovrastata da una costruzione: il palazzo di Dar Al Haiar (Palazzo sulla Roccia) che è diventato il simbolo dello Yemen. Costruito circa settanta anni fa è un esempio dell’architettura locale in pietra.

Al nostro arrivo troviamo un folto gruppo di persone che stanno festeggiando un matrimonio. Sono radunati sotto un enorme ficus posto all’ingresso del palazzo, cantano, ballano e sparano con i mitra kalashnikov. Sono tutti uomini e la maggior parte armati.

Da quando abbiamo lasciato la città due pattuglie armate della polizia ci accompagnano. Una ci precede ed una ci segue.

All’incontro con il gruppo che festeggia il matrimonio il nostro mostra una totale incoscienza turistica: ci fermiamo davanti a loro ad osservarli divertiti. Notiamo che invece il gruppo locale ha paura che qualcuno possa mescolarsi a noi. Un anziano con autorità lo impedisce, in questo modo evita che accada un gesto che possa essere interpretato come uno sgarbo. La presenza della guardia armata che ci accompagna evidentemente incute timore.

Il sole ora è alto ed il caldo si fa sentire. All’uscita del palazzo c’è una tenda con dei tavolini, ci sediamo per rinfrescarci.

Rientriamo a San’a, l’attraversiamo e ci dirigiamo dalla parte opposta della periferia per raggiungere il ristorante. Ognuno dissimula indifferenza ma in fondo è preoccupato. Margot ci ha detto che mangeremo in ristoranti locali, non seguendo l’asettica cucina internazionale. L’unica concessione che ci sarà fatta sono le posate: normalmente gli avventori usano le mani per prendere il cibo aiutandosi con il pane che assomiglia ad una schiacciata cotta al forno.

L’aspetto del ristorante non ci rassicura: assomiglia a quello di una trattoria di terz’ordine degli anni ’50. Le tovaglie sono in plastica ed i tovaglioli di carta. Da bere solo acqua e birra analcolica.

Ci viene servito un brodo di pollo e carne da condire con limone. Risulta gradevole. Pesce arrosto per secondo, l’esterno è abbrustolito mentre la parte superiore è, aperta con un taglio e spalmata con una spezia piccante. Il piatto è ottimo. Pollo o capretto per chi non vuole il pesce. Banane melone ed anguria per frutta, the per finire.

Saliamo in pullman mentre siamo assaliti dall’insistenza dei bimbi che ci chiedono caramelle o matite. Raggiungiamo la città fortificata dove c’è il suq (mercato). Qui cominciamo a capire perché San’à possa essere considerata bella. Visitiamo gli orti nascosti dove Pasolini ha girato le Mille e una notte e ci addentriamo nei vicoli. Le case hanno più di tre piani, attorno alle finestre l’intonaco è decorato con calce bianca. In una piazza stanno facendo il restauro della facciata di un palazzo. Dal tetto due manovali trattengono con le funi due muratori seduti su due trapezi situati a mezz’altezza. Stanno togliendo l’intonaco delle decorazioni che si sta staccando per rifarlo. Con un’altra fune i manovali calano la calce per sostituire le parti mancanti.

Penso al palazzo dove abito a Bologna. Stanno restaurando la facciata, un ponteggio enorme la copre sino al tetto: evidentemente in Yemen applicano una diversa legge sulla sicurezza!

L’accompagnatrice ci ha raccomandato di non fermarci nei negozi e di non perdere il contatto con il gruppo. Poi la guida si ferma in alcuni negozi, uno per ogni tipo di merce e lì ci aiuta. Sospettiamo un preciso accordo commerciale che alla fine ci agevola portandoci a comprare cose valide a prezzi onesti.

Il mercato si popola sempre di più. I negozi sono in genere piccolissimi e pieni di merce. Sono raggruppati per tipologia di prodotto: gli orefici tutti assieme, i commercianti di spezie da un’altra parte, quelli di tessuti da un’altra ancora. Ora facciamo fatica a passare e sono aumentati i mendicanti che, portando in braccio poveri bambini denutriti, ci chiedono insistentemente qualche cosa. Ci è stato detto di non dare denaro, ma dire continuamente di no risulta sempre più difficile.

Raggiungiamo una porta diversa della città vecchia, che è circondata da mura realizzate in fango e paglia, e ritorniamo al pullman. Rientriamo in albergo alle 17. Tempo per una doccia e poi alle 19 appuntamento per la cena.

Ci portano in un ristorante dove hanno riservato per noi una sala. Il responsabile del tour operator locale Mohamed ha iniziato nel pomeriggio a masticare il qat, e la sua guancia presenta un rigonfiamento fuori dal normale.

Il qat viene coltivato in quasi tutto il paese. Si tratta di una pianta, importata dall’Eritrea, la cui coltivazione ha soppiantato quasi tutte le coltivazioni del caffé. Per crescere non ha bisogno di particolari cure, solo di una frequente irrigazione. I germogli e le foglie più tenere vengono masticate dalla quasi totalità della popolazione. Ognuno comincia nel pomeriggio a "ruminare" ed i residui, per poter meglio apprezzare le sensazioni che una tale abitudine dà, vengono mantenuti in bocca spingendoli in un lato fra i denti e la guancia. Il risultato è di formare, con il susseguirsi della masticazione di più foglie, di un bolo che non deve essere sputato, pena la fine di tutte le sensazioni provocate da questa pratica. Gli effetti narcotici della pianta sono blandi. Aumentano la capacità a resistere alla fatica e permettono di poter rimanere svegli a lungo. Chi l’assume prova euforia alternata a fasi depressive. Le guide ci hanno detto che non si tratta di una droga e che non genera dipendenza. Di fatto abbiamo osservato un’eccitazione superiore al normale nelle persone che cercavano di procurarsi la dose giornaliera (le foglie ed i germogli, per fare effetto, devono essere giovani ed appena staccati dalla pianta) ed uno sguardo assente nei soggetti dopo alcune ore di masticazione.

Mohamed ci appare molto meno lucido di questa mattina. Non consuma la cena e quando gli chiediamo di pagare le bottiglie d’acqua minerale al nostro tavolo ove ci sono tre bottiglie vuote, chiede a me il pagamento di due bottiglie ed altre due ai commensali al mio fianco, poi cerca di proseguire. Dubitiamo che ci veda doppio e che le foglie del qat comincino a fare il loro effetto.

Il ristorante è di qualità inferiore rispetto a quello di oggi ma tutto quello che viene servito ci sembra buono. Il servizio lascia un poco a desiderare, dobbiamo chiedere le cose più volte. Dopo l’insalata e una specie di peperonata con legumi, ci vengono serviti tranci di palombo alla griglia e carne di capretto. Dobbiamo chiedere il pollo fritto con le patatine ed il riso che è già stato servito agli altri tavoli. Quest’ultimo andava condito con la peperonata servita per prima. Cocomero e melone per finire.

Cerchiamo di farci lasciare alla città fortificata per poter tornare a piedi, ma ci viene sconsigliato: secondo le nostre guide è pericoloso per un occidentale addentrarsi di notte nella città vecchia. Il dubbio se lo sia veramente o se si tratti di un eccesso di zelo degli organizzatori non ce lo leveremo mai.

Ci rassegniamo ad una breve passeggiata attorno all’albergo. Raggiungiamo la piazza della Liberazione che è il centro della città nuova e le giriamo tutt’intorno. A fianco della piazza c’è la sede di Teleyemen. Un gran numero di ragazzi sta chiudendo il proprio banchetto di vendita ambulante. Per realizzarli sono state usate delle carriole sulle quali sono state saldate delle casseruole per contenere la merce, al posto dei ferri di appoggio sono state inserite altre due ruote col risultato di formare dei rudimentali tricicli. Ora li stanno coprendo con teli di plastica, li legano e li radunano in un luogo appartato della piazza ove qualcuno li veglierà tutta notte.

Una giovane donna velata è accovacciata accanto ad un monte di sabbia in un angolo della piazza sopra ad un cartone, al suo fianco dormono due bimbi piccoli.

Le macchine, sgangherate e piene di ammaccature continuano a girare senza un apparente ordine, strombazzando. Non esiste un cartello stradale ed i semafori che abbiamo visto nella città che supera il milione e mezzo di abitanti sono poche decine. Caso strano, proprio ai semafori abbiamo visto la maggior concentrazione di agenti per regolare il traffico: forse nessuno fa caso alla segnalazione luminosa degli impianti senza il rigido controllo di un guardiano.

In una strada dietro la piazza un piccolo camion raccoglie l’immondizia. Due inservienti infilano nel cassone pezzi di cartone. Il risultato del loro lavoro sembra una goccia nel mare se viene confrontato con la sporcizia che rimane sulle strade.

Per tradizione i rifiuti debbono essere raccolti dagli akhdam (i servitori), gente senza tribù che sconta la discendenza da un generale etiope, costoro possono solo chiedere l’elemosina e raccogliere l’immondizia. Di conseguenza nessun altro yemenita raccoglie i rifiuti, anzi contribuisce ad aumentarli in dismisura perché a questa necessità devono provvedere altri individui.

Lungo il marciapiede ci imbattiamo in alcune persone che spazzano munite di una piccola granata: stanno pulendo dove una serie di mercanti appoggerà per terra la propria merce per mostrarla. Si tratta di magliette uguali a quelle che si trovano nei mercati di tutto il mondo. Non si trova quasi nulla del prodotto locale se non frutta e carne d’agnello.

Lungo la strada abbiamo visto pecore e capre brucare l’immondizia che era stata buttata dentro sacchetti di plastica. Così finivano di disperdere quello che era stato buttato dagli uomini.

La falce di luna che sta per tramontare ci appare, data la vicinanza con l’equatore, quasi coricata. È difficile, anche ricordandosi da quale parte si debba trovare la gobba, distinguere se si tratti della fase di luna calante o crescente.

Anna Maria, quella alta bionda e snella per distinguerla dall’altra Anna Maria che le sta a fianco in pullman, non ha più ritrovato il proprio pigiama che aveva lasciato sul letto. Si è lamentata con Margot dato che si trattava di un pigiama di seta ma soprattutto per aver dovuto dormire nuda ed ha chiesto di farlo cercare.

 Torna all'inizio