Yemen

Le mille.... e sei notti e mezzo

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Giovedì 13 aprile 2000

Sveglia alle 6. Colazione a self-service nella sala dell’albergo. I muri e le colonne sono ricoperti di marmo bianco che le danno un aspetto di bagno turco. Non c’è il burro che compare solo su richiesta di uno di noi. Alle 7 partenza per il mercato del pesce che si trova a fianco del porto.

Le barche sono rientrate dalla pesca e le contrattazioni sono iniziate. C’è una gran confusione e il rumore delle voci è assordante. Vediamo pesci di dimensioni per noi inusuali. Il trasporto avviene in cesti di paglia dalle barche al mercato e con carriole condotte da ragazzi sino ai camioncini. Vengono utilizzati quelli più sgangherati. Dato che il pesce viene caricato direttamente nei cassoni il mezzo non può più essere utilizzato per altri scopi. A fianco della tettoia ove avvengono le contrattazioni, se ne trova uno senza le portiere, i parafanghi ed il cofano: se non fosse per il fatto che lo stanno riempendo nessuno sospetterebbe che si possa muovere.

Viste le carcasse di auto che circolano pensiamo che nello Yemen i meccanici siano bravissimi!

Proseguiamo per la meta successiva, lasciamo la Tihama (la pianura che si trova fra il mare e le montagne) e ci addentriamo in una stretta valle. Nel wadi corre l’acqua, sui monti è piovuto e per gli abitanti è una festa. C’è chi lava i panni, chi fa il bagno mentre le bestie si abbeverano.

Oggi per non sfigurare di fronte a Mohamed che porta il proprio mitra con un doppio caricatore ed il cannocchiale, la scorta è salita su di una camionetta dotata di un mitra pesante. Tre militari sono seduti sul cassone ed uno in piedi afferra l’arma pronto a fare fuoco.

L’aspetto delle case è cambiato, si susseguono piccoli villaggi con costruzioni basse costruite a secco con pietre squadrate. Man mano che saliamo di quota il paesaggio si fa più aspro ed i pendii più scoscesi. Arriviamo al passo e ci dirigiamo a destra diretti a Manakha che per noi sarà solo un punto di passaggio ed è posta al centro di una serie di paesi abbarbicati sulle cime della montagna con case in pietra a forma di torre che dominano i sottostanti campi a terrazze. Ci dirigiamo verso Hoteib dove si trova la tomba di un santo ismaelita. La strada è stata asfaltata grazie ad un finanziamento dell’Aga Kan che sembra aver sostituito questo posto alla costa Smeralda nei suoi interessi. Ha comperato tutta la città che è sede di culto. Non c’è tempo per visitarla, siamo in ritardo sulla tabella di marcia e per tagliare corto ci viene detto che non è permesso entrare nel paese che guardiamo solamente da alcune centinaia di metri. Ai bordi della strada non ci sono protezioni e i precipizi sono impressionanti: meglio non guardare in basso dal pullman. Attraversiamo di nuovo Manakha e ci dirigiamo a Hajjarah. La strada che dobbiamo percorrere è sterrata, i pullman proseguono quasi a passo d’uomo permettendo così ai ragazzi che la percorrono a piedi di aggrapparsi ai mezzi che transitano e reggersi stando in piedi sul paraurti posteriore. Adesso capisco a che cosa serve lo specchietto posto dietro al finestrino posteriore e rivolto in basso: permette di vedere il paraurti, non tanto per misurare con più facilità la distanza degli ostacoli nelle manovre, quanto per controllare che nessuno si aggrappi. Gli autisti si fermano più volte, sgridano i ragazzini e quando uno di questi, più rapido degli altri, riesce a salire sul tetto Yahya si ferma e lo costringe a scendere a sassate.

Dopo tanti sobbalzi e scossoni arriviamo al paese ed entriamo in un funduk. Si tratta di un classico locale yemenita dove è possibile mangiare e dormire. Saliamo al primo piano, ci togliamo le scarpe ed entriamo in due sale contigue, separate da una porta a più ante che è stata aperta per formare un unico vano. Ai lati della sala ci sono dei materassini, contro la parete dei cuscini ed in mezzo sono già predisposte delle grandi stuoie di forma circolare, dove i camerieri appoggeranno i tegami di portata. Normalmente non sono previsti piatti o posate. Gli yemeniti, stando accovacciati, usano le mani, aiutandosi col kubz (pronuncia cobiz, una focaccia cotta al forno, grande e piatta come una schiacciata), per portare alla bocca il cibo. Per noi è stato previsto l’uso di piatti e posate. L’entusiasmo e la curiosità ci fanno vincere il primo momento d’imbarazzo e la difficoltà che proviamo nell’assumere la posizione accovacciata.

Ci viene servito saltah (pron. Salta, un piatto con la consistenza di una pappetta per neonati e di colore verde fatto con carne macinata, uova, riso, patate peperoncino ed hulba che è una spezia in polvere di colore bianco che dà colore e sapore), hariza (riso tritato condito con burro ed olio), abu ain (trad. "uova all’occhio", una frittata con pomodori) e per finire bint al sahan (trad. "la ragazza sul piatto" una focaccia dolce al forno condita con miele).

Finito il pranzo e portate via le stoviglie di alluminio, viene eseguito per noi un ballo secondo la tradizione locale con l’accompagnamento di suonatori che utilizzano strumenti a corda, a percussione e a fiato.

La tecnica, per dare un suono continuo a quest’ultimo strumento, è particolare: il suonatore usa la bocca come se fosse il mantice di una zampogna. Gonfia le gote e mentre riempie di nuovo i polmoni attraverso il naso, continua a spingere aria nello zufolo a tre canne appoggiato alla bocca comprimendo i muscoli facciali, poi ricomincia.

I ballerini sono solo uomini ed utilizzano la jambiha come strumento coreografico: è curioso osservare che viene usata la jambiha di un altro mentre la propria continua ad essere portata nel fodero.

Usciamo dal locale e visitiamo il paese a piedi. Un folto gruppo di ragazzini tenta di abbordare ognuno di noi utilizzando la tecnica che già abbiamo visto a Zabid. Cercano di prenderci per mano, chiedono in italiano il nome di ciascuno. La loro insistenza aumenta a tal punto che molti di noi sorprendentemente sembrano non ricordare più il proprio nome. Ora sono tanto numerosi e fastidiosi quanto un nugolo di mosche.

Il paese nella sua asprezza è affascinante. Per accedervi bisogna scendere e risalire numerosi gradini molto alti. Entriamo fra le prime case solo per vedere dall’alto il quartiere ebreo che è al di sotto delle altre case. Margot ci ha raccomandato di non addentrarci nel paese e soprattutto di non accettare l’invito ad entrare in casa. Ci dicono che la porta potrebbe richiudersi alle nostre spalle e nessuno potrebbe più aiutarci. Non sappiamo se sia un pretesto per evitare che qualcuno di noi si attardi, ma non osiamo provarci per poterlo verificare.

Partiamo alle 16 diretti a San’a. Dobbiamo percorrere una strada tortuosa con molti saliscendi. Il panorama è sempre vario ed affascinante. Ci fermiamo ad osservare una piantagione di caffè. In passato lo Yemen era famoso per la produzione della qualità moka. Oggi le coltivazioni di qat hanno soppiantato quelle di caffè che non viene più esportato.

Un bambino cerca di venderci una fionda, vorremmo fare finta di niente, ma temiamo che, voltate le spalle, ci arrivi una sassata.

Arriviamo in albergo alle 19,30. Non vediamo l’ora di poter recuperare i nostri bagagli, fare una doccia e cambiarci. L’albergo ci appare più bello di come lo avevamo lasciato. La cena è fissata alle 20,30, ci sembra sempre uguale e cominciamo a sentire il bisogno di verdure per riacquistare tutte le nostre funzionalità organiche.

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