Domenica 9 ottobre 2005 Sousse-Kairouan-Gafsa-Mides-Tamerza-Chebica-Tozeur (Km. 549) Ieri sera Luigi ha assicurato per la sveglia: "Tranquilli, vi chiamiamo noi". Dopo una notte agitata dagli eccessi di tifoseria locale che sono durati a lungo, apro gli occhi e guardo l'orologio. Sono le cinque e mezzo: e la sveglia? Eccola! suona il telefono con mezz'ora di ritardo. Ci buttiamo dal letto e cerchiamo di recuperare, perché alla sei si parte. Giunti trafelati nella hall, ci accorgiamo che non siamo stati i soli a non essere stati chiamati e se Mario non fosse sceso per tempo a sollecitare gli impiegati, saremmo stati ancora a letto a dormire. Con mezz'ora di ritardo formiamo la nostra colonna di otto fuoristrada: quarantacinque turisti, otto guidatori, una guida e un accompagnatore. Le strade di Sousse (sùsse) sono deserte. Il sole é appena sorto. Passiamo davanti alla medina e ci dirigiamo alla volta di Kairouan (cairuàn), il cui nome deriva da carovana, che é la quarta città santa dell'Islam dopo La Mecca, Medina e Gerusalemme, grazie al fatto di essere stata la prima città araba fondata nel continente africano. Il paesaggio é simile a quello di ieri. Non vediamo più i vigneti e aumentano i fichi d'India. Sostituiscono i muretti di confine ed i recinti dei campi. Sono carichi di frutti. I campi sono già stati arati e sono pronti per la nuova semina. Prima delle otto giungiamo alla città che é circondata da mura e sorge in mezzo ad una pianura stepposa. La città sorge in una zona che si trovava fra la costa occupata dai Bizantini e la montagna dai Berberi. Nel punto più alto é stata costruita la grande Moschea. Ci fermiamo al bacino degli Aghlabiti, (dinastia che regnò fra il IX e X secolo. Sotto il loro regno la città raggiunse il suo massimo splendore) una serie di varie vasche che raccoglievano l'acqua proveniente dalle montagne. |
Saliamo su una terrazza per guardare la città da un punto di vista più alto. Oltre alle vasche ed alle montagne lontane riusciamo a vedere poco di più. La scarsa differenza di altezza rispetto alle mura della città e alle case non ci permette di guardare dall'alto le case e solo il minareto della grande moschea appare sopra ai tetti in controluce. Dopo aver pagato un ticket per "la droit de photo", raggiungiamo la grande moschea. La costruzione é imponente ed il possente minareto, coi suoi trentacinque metri di altezza, svetta in un cielo di un intenso azzurro. |
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Al centro del cortile un sistema idraulico permette di convogliare l'acqua piovana in una serie di cisterne. Le colonne del porticato ed i capitelli sono stati recuperati da templi romani. Non possiamo entrare nella sala della preghiera e ci fermiamo davanti alle porte in legno intagliato di pregevole fattura. |
Proseguiamo la nostra visita dirigendoci alla Zaouia (mausoleo) di Sidi Sahbi detto la Moschea del Barbiere (Abou Dhama el-Balaoui, uno dei compagni del profeta, secondo la tradizione portava sempre con sé tre peli della barba di Maometto in segno di venerazione). Visitiamo l'edificio passando attraverso vari cortili sino al santuario dove sono conservate le spoglie del santo. Ceramiche e maioliche tunisine ricoprono le pareti, sovrastate da stucchi scolpiti. Nell'edificio si trova una moschea, una medersa (scuola coranica), la tomba dell'architetto che ha costruito l'edificio, la tomba del santo e la sala per la circoncisione dei bambini. Ripartiamo diretti a Gafsa (gàfsa) la porta del sud, la porta del deserto. Il paesaggio pian piano cambia. Gli ulivi si fanno più radi e la vegetazione cala. Quando passiamo in una zona abitata dossi rallentatori costringono le macchine quasi a fermarsi. Gianfranco si domanda se quelli che abbiamo incontrato nella città di Kairouan fossero "dossi sacri". Alberi di eucalipto fiancheggiano la strada. Alle 12,30 arriviamo al restaurant Orbata. Davanti all'entrata sono parcheggiati una decina di pullman e i posti disponibili nella sala non bastano. Nonostante la prenotazione facciamo fatica a sistemarci. Alcuni di noi devono sedersi in terrazza all'aperto, anche se fa caldo e soffia una brezza quasi fastidiosa. Il self service é modesto e poco spazioso. Le patate al forno sono crude ed i piatti di carne solo due. Ci salviamo servendoci abbondantemente delle verdure. Terminiamo in fretta, in meno di un'ora. Sono le 13,15. Chiediamo alla guida l'ora di partenza: "Fra un quarto d'ora". Bene! Dopo pochi minuti Luigi ci comunica che partiremo alle 14. "Ma che cosa stiamo a fare in un posto assolato e desolato più di tre quarti d'ora? Hamda ha detto che saremmo ripartiti alle 13,30" replichiamo noi. "Allora, se l'ha detto Hamda, va bene!" Riprendiamo il cammino e ci dirigiamo verso le oasi di montagna. Il paesaggio diventa arido e solo pochi ciuffi d'erba secca spuntano qua e là. Giunti alle prime colline, attraversiamo i binari a scartamento ridotto della ferrovia che porta i fosfati dalle miniere a Sfax. Attraversiamo varie catene di colline lungo un paesaggio roccioso scavato nelle più strane forme. |
Raggiungiamo la città di Mides (mìdas) dove il piccolo rigagnolo d'acqua che scorre fra le rocce ha scavato nei millenni un canyon profondo. Il sole é ormai basso sull'orizzonte e i due lati del solco sono illuminati in modo differente: uno é completamente al sole mentre l'altro é già in ombra e non riusciamo a trovare la giusta angolatura per fare delle foto meno contrastate. |
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Per cercare di ripararci dal sole acquistiamo da un venditore locale due fasce di tessuto che acconcia a turbante sulle nostre teste. Giura e spergiura che si tratta di puro cotone. Ma del cotone i due pezzi di stoffa, belli a vedersi, non hanno sentito nemmeno l'odore. Si tratta di vero cotone sintetico. In compenso l'acconciatura serve per fare una serie di foto e siamo contenti lo stesso. |
Poco lontano giungiamo a Taméghza (tamérza), distrutta dalle piogge torrenziali del 1969. Il villaggio é stato abbandonato ed ora forma una splendida ma triste coreografia a fianco del letto del fiume ora in secca. Poco lontano il fiume riappare e forma una cascata e alcune pozze d'acqua.Un turista sta facendo il bagno mentre molti di noi ne approfittano per un pediluvio ristoratore. |
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Tutt'attorno una serie di baracche con negozi che vendono souvenir di ogni genere, così come abbiamo trovato al canyon. L'industria del turismo, qui come altrove, non riesce a produrre altro che miseri empori tutti uguali. L'ultima tappa della giornata a Chebika (scibìca). Sopra al villaggio si apre una gola in cui nasce un ruscello contornato da palme. |
Facciamo una passeggiata di mezz'ora attraverso un paesaggio surreale, seguiti da un codazzo di ragazzini petulanti che vogliono venderci collane, rose del deserto e geodi. Purtroppo il sentiero che é stato ricavato per percorrere la stretta valle ha in parte rovinato la bellezza del luogo, ma per il dio turista si fanno questi ed altri sacrifici. Risaliamo in macchina. Sono ormai le 18 e Mohamed, il nostro autista, é nervoso. Non ha bevuto, mangiato e fumato per l'intera giornata ed adesso non vede l'ora di arrivare. Mentre avanza a velocità sostenuta afferra una pagnotta, comincia a mangiarla ed il mezzo ondeggia pericolosamente. Una sosta per vedere il sole che tramonta e poi via alla volta di Tozeur (tozér). Alle 19 arriviamo all'albergo Abou Nawas. Compilato il compitino prendiamo le chiavi delle stanze. La struttura dell'albergo é tale da formare un piccolo villaggio con case a uno o due piani, situate dopo la piscina, che scendono verso il basso con una serie di scale. Nessuno ci porta le valige e le indicazioni delle stanze che si affacciano sui vialetti non sono chiare. La ricerca sembra una piccola caccia al tesoro. C'é chi impreca, stanco per il viaggio, ma alla fine ce la facciamo. Alle 20 chi rimane in albergo cena, mentre chi ha scelto di partecipare alla serata folcloristica si ritrova nella hall. Esprimo a Luigi i miei dubbi sulla proposta offerta. Rimane nel vago senza dare un giudizio. Temo che, pur conoscendo cosa ci aspetta, non voglia prendere una posizione negativa nei confronti del tour operator locale. Ed infatti il pacchetto che ci viene proposto ci appare nel complesso modesto. Dopo un'accoglienza con una parata di quattro suonatori, due cavalli, una fontana con una serie di zampilli d'acqua illuminati d'azzurro e un mangiafuoco, ci fanno accomodare sotto ad un tendone sorretto da una struttura metallica in tubi di acciaio, con un'illuminazione scarsa e poco curata dove si trovano già circa duecento persone. Occupiamo gli ultimi tavoli. La cena tradizionale prevede un antipasto con olive ed harissa (una salsa di pomodoro e peperoncino da spalmare sul pane), una potage rossa e piccante, il brik (una sfoglia sottile di pasta ripiena di un uovo crudo e fritta) ed il cuscus (semola, peperoni, patate, cipolle, zucca e carne) con vino tunisino rosé o rosso. Uva, pere e té alla menta. Le portate nel complesso sono passabili ma tutto sembra artefatto a cominciare dai suonatori di tamburo e dalle ballerine serbo-tunisine strabordanti di ciccia. Bravo il giocoliere con le anfore e l'incantatore di serpenti col cobra. Incredibile l'anfiteatro con gradinate a semicerchio da oltre cinquecento posti in cui si svolge lo spettacolo equestre con due cavalli e tre cavalieri. Alla fine per riempire una serata che altrimenti avremmo passato chiusi in albergo, tutto va bene. |
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